Cosa avrà fatto mai il povero finocchio per meritarsi un modo di dire così denigrante? Scopriamolo, assieme alle virtù – non solo gastronomiche – di questa pianta e delle sue piante “cugine”.

Nell’800, in epoca di “osti della malora”, di botteghe sudice e maleodoranti, di vini pessimi, era usanza – da parte di alcuni osti più spregiudicati – offrire qualche fettina di finocchio agli avventori che volessero acquistare del vino. Beh, questi osti – magari senza neanche saperlo – sfruttavano le proprietà delle sostanze aromatiche contenute nel finocchio, che rendono più gradevole il vino di qualità scadente. Motivo per cui, bisognava acquistare il vino “senza lasciarsi infinocchiare” dall’oste.

Il finocchio appartiene ad una famiglia botanica ricca di piante usate sia in cucina che in medicina, le Apicaceae o Ombrellifere, così dette per via della caratteristica forma ad ombrello dei fiori. Tra i suoi “cugini” troviamo i ben notisedano, carota, prezzemolo e  coriandolo. Appartengono anche alla stessa famiglia i meno noti cumino – i cui semi sono utilizzati come spezia per insaporire pani, formaggi, nonché come componente essenziale di curry e masala, grazie anche all’azione anti-microbica – la pastinaca – una sorta di rapa allungata – il levistico – dal sapore simile al sedano, ma più delicato; le foglie si usano per insaporire brodi e umidi, mentre i semi sono utilizzati per preparare liquori – e l’angelica – i cui gambi sono utilizzati in pasticceria, come frutta candita.

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Il nostro finocchio invece ha un parente molto prossimo nell’aneto, anche noto come finocchio bastardo, chiamato addirittura finocchio puzzolente dagli antichi romani, a causa del suo forte aroma. La parte che comunemente consumiamo del finocchio addomesticato – con tante varietà, come quello di Parma, il Gigante di Napoli, il Bianco dolce di Firenze, o il Grosso di Sicilia – rappresenta il grumolo, ovvero la parte bassa e fibrosa delle ramificazioni della pianta. Il grumolo del finocchio maschio è meno fibroso e più acquoso, quindi più ricercato da un punto di vista gastronomico. Della pianta si consuma praticamente tutto: oltre al già citato grumolo, le barbe per insaporire, i frutti – detti semi di finocchio – come spezia o per farne dei liquori, ed i rami più teneri in stufati o oltre preparazioni.

Il finocchio selvatico è invece molto apprezzato per l’intensità dei suoi aromi, motivo per cui se ne raccolgono i barbi quando i fiorellini sono aperti; rappresenta un ingrediente fondamentale di tante ricette tipiche siciliane.

Nel corso dell’ultima edizione di Identità Golose, lo chef Niko Romito ha presentato un piatto molto originale a base di finocchio: Finocchio cotto, sensazione cruda. Il finocchio viene cotto a bassa temperatura per un’ora e mezza, per essere successivamente glassato con un caramello del finocchio stesso, riproducendo la sensazione di un finocchio crudo grazie ad un centrifugato di barba del finocchio, la parte del  vegetale più persistente e fresca.  Una sperimentazione – ancora non in carta – ottenuta utilizzando il finocchio al 100%, senza alcuna altra aggiunta.